Covid-19, l’odissea di una famiglia “reclusa” in attesa di negativizzarsi

30 Settembre 20208min1870
Covid coronavirus

Nel caleidoscopio di conseguenze che la pandemia sta causando alle nostre vite, ci sono anche retroscena che difficilmente si potrebbero immaginare.

È il caso del dipendente di una nota azienda edile di via delle Corbinaie a Scandicci, che da due mesi e mezzo è “recluso” in un albergo di Montecatini.

Ma andiamo con ordine. Intorno a metà luglio, pochi giorni dopo una cena fra due famiglie, uno dei commensali è risultato positivo al Covid-19 ed è quindi scattato l’obbligo per tutti i presenti alla cena di sottoporsi al tampone. Risultato: tutti positivi, sebbene asintomatici e in perfetta salute.

Fra questi anche il nucleo familiare di Umberto (nome di fantasia, perché vuole mantenere l’anonimato), 39 anni, come già detto dipendente di un’azienda edile di Scandicci anche se risiede a Firenze, sua moglie di 30 anni, parrucchiera, i figli di 4 e 6 anni e la suocera.

Il reparto di Igiene e sanità pubblica dell’azienda sanitaria di Firenze, siccome l’appartamento in cui la famiglia vive non è ritenuto sufficientemente grande per consentire un adeguato isolamento dei componenti, propone loro – non li obbliga – di andare a trascorrere la quarantena in una struttura a Montecatini, un albergo adattato a ospitare anche persone contagiate; in quei giorni, infatti non ce ne erano di disponibili nell’area di Firenze.

Pensando di dover stare confinati solo 14 giorni, Umberto e i suoi familiari fanno mente locale, si organizzano, anche col lavoro, e accettano con non eccessivo fastidio di fare questa “vacanza”, pur consapevoli che sarebbero stati rigidamente vincolati a non uscire dalle proprie stanze per alcun motivo. È il 17 luglio e vi si trasferiscono; oltre alla coppia e ai figli, anche i suoceri e il cognato: in tutto occupano cinque stanze, dal momento che i piccoli stanno con la mamma.

L’albergo è di piccole dimensioni, 25 camere senza balcone, e ospita anche immigrati sbarcati clandestinamente; il protocollo anticovid deve essere seguito rigorosamente, dal personale dell’albergo, quindi nessun rapporto con la famiglia di Umberto, salvo qualche parola, ogni tanto, a distanza. In caso di emergenza o urgenze, è possibile comunque rivolgersi al proprietario.

Il cibo deve arrivare categoricamente dall’ospedale – quindi è appunto “cibo da ospedale”, non propriamente da leccarsi i baffi -; in camera non si può cucinare e dunque la famiglia si fa comprare cibo da consumare senza cottura da parenti, che lo lasciano alla reception: per il 70% Umberto e i suoi si alimentano così, mentre per il rimanente 30% adattano il palato a consumare i piatti che arrivano dall’ospedale.

Gli abiti li lavano nel lavandino e li asciugano in camera per non mandarli all’esterno e non fanno entrare le persone delle pulizie per evitare che il virus possa eventualmente fare capolino nelle loro camere. Insomma, sono autosufficienti. E le due settimane passano…

Arriva il giorno fatidico, il venerdì, quando viene fatto il tampone. La famiglia è in fibrillazione, pronta a tornarsene a casa l’indomani non appena avuti i risultati. E qui inizia l’odissea: dai tamponi risultava ancora la presenza di una carica virale, seppur bassissima. Tutti ancora positivi! Ancora una settimana da trascorrere là, in attesa del prossimo tampone che… ma sì, via, sarà di certo negativo…

Invece no e la serie di risultati non negativi si allunga: il cognato è uscito dopo 45 giorni, la suocera una settimana dopo, il suocero due settimane dopo e i figli una settimana fa e adesso stanno con i nonni. Umberto e sua moglie, all’ultimo tampone di venerdì scorso 25 settembre, non erano ancora negativizzati. Dopo due mesi e mezzo…! E non vedono l’uscita dal tunnel…

«È un tormento non sapere quando finirà questa storia – spiega Umberto – ci sentiamo isolati dal mondo esterno. Sono profondamente angosciato e amareggiato. Non ho avuto, finora, momenti di crisi, ma mia moglie un po’ sì».

Anche perché c’è una questione che preme particolarmente all’uomo: il 17 luglio, quando tutti sono entrati in quarantena, sarebbe dovuto andare in banca per avviare l’iter per l’acquisto della casa, ma tutto si è fermato per l’impossibilità di firmare i documenti necessari e questo stallo alla fine potrebbe significare che sfumerà l’accordo, sebbene sia già stata pagata la caparra.

Per quanto riguarda il lavoro, il 39enne ricopre un ruolo cardine nel funzionamento dell’azienda, che quindi adesso si trova ingessata, stretta fra il dover fare a meno di un dipendente pressoché indispensabile e il non poterlo neanche – anche volendo, a mali estremi – sostituire, visto che per ora è in vigore il decreto governativo per il blocco dei licenziamenti. E anche sua moglie comincia a essere preoccupata, perché non sa quale potrà essere il suo futuro lavorativo se questa incredibile situazione dovesse protrarsi ancora a lungo.

Da notare che per due volte il primo tampone di Umberto è stato negativo e a 24 ore di distanza positivo (per poter essere considerati negativizzati occorre infatti fare due tamponi a distanza di 24 ore e che siano entrambi negativi); le altre volte invece sono stati entrambi positivi, seppur lievemente. Il suo bilancio attuale sono quattordici tamponi fatti: sei con leggera carica virale, due negativi e cinque positivi. Un altro ospite dell’albergo sono addirittura due mesi che ogni settimana ha un tampone negativo e l’indomani positivo!

Inutile chiederle cosa deciderebbe di fare se tornasse indietro… «Non accetterei di andare in una struttura, assolutamente no, farei il possibile per rimanere a casa – dichiara Umberto -. Penso che chi di dovere dovrebbe far sapere esattamente alle persone cosa le aspetta quando vengono messe in quarantena, perché mai per nessuno, che fosse inizialmente positivo, sono stati solo 14 giorni. La regola dei 14 giorni vale solo per chi è negativo e viene messo in isolamento preventivo: se alla fine delle due settimane è ancora negativo allora esce. Ma non è scritto su alcun documento che la positività al virus possa durare per così tanto tempo, loro dicono che al 99,9% dopo due settimane la gente finisce la quarantena, ma adesso ho capito che non è così».

Insomma, Umberto e sua moglie vivono da settimane aspettando con trepidazione il sabato, per avere il risultato del tampone del venerdì. Di salute stanno benissimo, passano le giornate alla tv, su internet, ma l’angoscia cresce sempre più.

«Penso alle persone che non hanno, per esempio, la stabilità lavorativa e i riferimenti familiari solidi che per fortuna abbiamo noi – conclude il protagonista di questa kafkiana vicenda -: una simile situazione potrebbe davvero segnare la vita in negativo».

di Luca Campostrini

 


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